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Papa Francesco: "Chi perde la speranza finisce nella disperazione e fa cose brutte"

"Chi perde la speranza finisce nella disperazione e fa 'cose brutte': impariamo dai poveri e dagli emarginati a sperare, rimanendo vicini a chi si sente abbattuto dal 'peso della vita' e non riesce a sollevarsi" ha dichiarato Papa Francesco all’udienza generale in Aula Paolo VI, proseguendo il ciclo delle catechesi sulla speranza cristiana e soffermandosi sulla fonte del conforto reciproco e della pace "Sono gli ultimi delle nostre società che ci insegnano a sperare, perché 'nessuno' impara a farlo 'da solo'. La speranza, per alimentarsi, ha bisogno necessariamente di un corpo, di una dimora naturale, cioè la Chiesa: la speranza cristiana, spiega, non ha solo un respiro personale, individuale, ma comunitario, ecclesiale: le varie membra si sostengono e si ravvivano a vicenda. E, se speriamo, è perché tanti nostri fratelli e sorelle hanno tenuto viva per noi la speranza. Tra questi, si distinguono i piccoli, i poveri, i semplici, gli emarginati. Sì, perché non conosce la speranza chi si chiude nel proprio benessere: spera soltanto nel suo benessere e questo non è speranza: è sicurezza relativa; non conosce la speranza chi si chiude nel proprio appagamento, chi si sente sempre a posto… A sperare sono invece coloro che sperimentano ogni giorno la prova, la precarietà e il proprio limite. Questi fratelli, danno la testimonianza più bella, più forte, perché rimangono fermi nell’affidamento al Signore. Al di là della tristezza, dell’oppressione e della ineluttabilità della morte, l’ultima parola sarà la sua, e sarà una parola di misericordia, di vita e di pace. Chi spera, spera di sentire un giorno questa parola: 'Vieni, vieni da me, fratello; vieni, vieni da me, sorella, per tutta l’eternità’. L’invito è a porre l’attenzione sui fratelli che rischiano maggiormente di perdere la speranza: abbiamo sempre notizie, di gente che cade nella disperazione e fa cose brutte. La disperazione li porta a tante cose brutte. Il riferimento è a chi è scoraggiato, a chi è debole, a chi si sente abbattuto dal peso della vita e delle proprie colpe e non riesce più a sollevarsi. In questi casi, la vicinanza e il calore di tutta la Chiesa devono farsi ancora più intensi e amorevoli, e devono assumere la forma squisita della compassione, che non è avere compatimento: la compassione è patire con l’altro, soffrire con l’altro, avvicinarmi a chi soffre; una parola, una carezza, ma che venga dal cuore; questa è la compassione. Per chi ha bisogno del conforto e della consolazione. Ciò è quanto mai ìimportanteì, perché la speranza cristiana non può fare a meno della carità genuina e concreta. Come spiega l’Apostolo delle genti nella Lettera ai Romani, sono i forti che hanno fede, speranza o non hanno tante difficoltà ad avere il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacersi. Portare le debolezze altrui. Questa testimonianza poi non rimane chiusa dentro i confini della comunità cristiana: risuona in tutto il suo vigore anche al di fuori, nel contesto sociale e civile, come appello a non creare muri ma ponti, a non ricambiare il male col male, a vincere il male con il bene, l’offesa con il perdono – il cristiano mai può dire: me la pagherai!, mai; questo non è un gesto cristiano; l’offesa si vince con il perdono –, a vivere in pace con tutti. Questa è la Chiesa! Ed è anche ciò che opera la speranza cristiana, quando assume i lineamenti forti e al tempo stesso teneri dell’amore, perché esso è forte e tenero. Aiutarci a vicenda. Ma non solo aiutarci nei bisogni, nei tanti bisogni della vita quotidiana, ma aiutarci nella speranza, sostenerci nella speranza. Tocca in primis a coloro ai quali è affidata la responsabilità e la guida pastorale, non perché siano migliori degli altri, ma in forza di un ministero divino che va ben al di là delle loro forze: hanno perciò bisogno del rispetto, della comprensione e del supporto benevolo di tutti. Il soffio vitale, l’anima della speranza è lo Spirito Santo: senza invocarlo, non si può avere speranza. Se non è facile credere, tanto meno lo è sperare. E’ più difficile sperare che credere, è più difficile. Ma quando lo Spirito Santo abita nei nostri cuori, è Lui a farci capire che non dobbiamo temere, che il Signore è vicino e si prende cura di noi; ed è Lui a modellare le nostre comunità, in una perenne Pentecoste, come segni vivi di speranza per la famiglia umana". 

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