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Ha ancora un senso nel 2020 ascoltare un disco di Piero Pelù? “I Pugili sono fin troppo fragili”


Nicola Ricchitelli –  Quarant’anni e…sentirli tutti, questa in sintesi il verdetto sul sesto album da solista di Piero Pelù, “Pugili fragili”.
In assoluto l’album più mal riuscito dei suoi vent’anni di carriera da solista – 40 se si includono gli anni da front man dei Litfiba – dieci canzoni – compresi “Gigante” portato a Sanremo e “Picnic all’inferno” – tanta noia, molta ovvietà e poco rock, un album dove a tratti sembra scimmiottare se stesso riprendendo idee di scrittura e suoni già ascoltati in precedenti lavori. Un album dove altresì si sente la mancanza del buon Ghigo Renzulli, abituato negli ultimi lavori di coppia a coprire con i suoi assoli la scialba scrittura di Pelù che ad oggi sembra quasi non aver più nulla da dire.

A salvarsi da questa “Caporetto musicale”, il featuring cantato con Andrea Appino leader toscano dei Zen Circus, un brano posizionato quasi strategicamente come ottava traccia, forse per far svegliare l’ascoltatore assopito, oltre all’esperienza sanremese – “Cuore matto” e “Gigante” - per molti fans della prima ora il punto più basso toccato in questi 40 anni di carriera, con tanto di scena trash della gag della borsetta “rubata” ad una signora seduta in platea.

Si inizia con Picnic all’inferno, singolo lanciato nelle settimane prima dell’inizio del festival, la canzone è quella che è, per un quarto scialba, per un altro quarto retorica, per un altro quarto ancora quasi ovvia e per il restante quarto rasenta il ridicolo. Si è vero, Piero ha sempre affrontato temi di natura ambientalista, ricordo che lo ha fatto nel lontano 1986 prima e nel 1988 poi con i Litfiba, stiamo parlando di Peste e Apapaia, quella era un’altra storia, era un'altra musica, ascoltatele, eventualmente fatemi sapere.

Segue il brano con cui il rocker fiorentino ha ben figurato in questo 70° festival di Sanremo, quindi “Gigante”, non sarà il brano con cui ti fa mandare un urlo liberatorio e gridare “Piero è tornato”, ma dentro di me ho covato l’idea che almeno il podio potesse conquistarlo.

Si va ora agli inediti lì dove c’è da piangere e poco da sorridere, arriva “Ferro caldo”, un brano dove Pelù alla fine sembra quasi imitare sé stesso, l’intro è di “Gioconda” memoria, si parla dei 20 anni, senza capire nello specifico cosa volesse raccontare, un brano che si perde nell’ovvietà, o forse è meglio dire, è un brano che si perde e basta in quattro parole messe in croce…

A seguire arriva “Pugili Fragili”, una ballata lenta fino quasi a sfiorare la noia, almeno nella parte iniziale, il tutto poi sfocia nel solito ritornello che scalda quanto basta,  una melodia che ai fans più addentrati evoca un certo “Buongiorno Mattino” contenuta nel primo album d’esordio “Ne buoni ne cattivi” di Pelù pubblicato in quel lontano 2000 a seguito della scissione con Ghigo Renzulli. Appunto, il problema è proprio questo…questo è il buongiorno.

Quando pensi che ora arriva la giocata, il colpo che cambia il verso della partita ecco arrivare “Luna Nuda”, un pezzo che evoca un po’ i concetti già cantati in “Luna Dark” contenuta nell’album Grande Nazione registrato con i Litfiba nel 2012, un pezzo pop più che altro, tanto pop da poter far giusto 3-4 serate in un improbabile Festivalbar.

A risvegliare dall’apatia di questi dieci minuti di assoluto anonimato arriva “Cuore matto”, anche se a detti di molti internauti, forse era più apprezzabile la versione portata sul palco dell’Ariston.

Si torna agli inediti quindi, ecco “Nata libera”, dove l’unica cosa che ti salta subito all’orecchio è un certo concetto di libertà, è l’unica cosa che capisci, poi la canzone fila via che da dormire c’è né fin che c’è né. Dovrebbe essere un pezzo contro la violenza sulle donne mi dicono, alla fine è molto più rock quel NO scritto sul petto durante la serata delle cover a Sanremo.

Ecco caro fan, specie se della prima ora, se avevi perso tutte le speranze di sentire una canzone decente, non andare via, torna qua, perché ora stà arrivando “Fossi foco”, la giusta ricompensa per quelli che hanno aspettato fino a questo momento. Un brano che vede il featuring di Andrea Appino – frontman dei Zen Circus – un brano per noi che “…siamo come siamo e sono anche cazzi miei…”, un brano che si veste da capolavoro vista la pochezza dei testi fin qui recensiti, un brano che mette al centro di tutto la diversità, dall’omosessualità, al razzismo, il tutto avente come sottofondo un rock prorompente che travolge chiunque l’ascolta….”cassa rullo cassa rullo cassa senti qua”.   

Ultimi due brani quindi, arriva “Stereo Santo”, anche qui un concetto già sentito quasi 25 anni fa ne “La Musica fa” contenuto nell’album Spirito, qui dove il buon Pelù per darsi il tono del rocker che fu, spara cazzi qua e là, il tutto bagnato con il casino delle chitarre, giusto per dare un senso a una canzone che un filo conduttore non ha.

Finalmente arriva “Canicola” a chiudere questa mezzora e più di ascolto; un brano che in qualcje modo sembra essere la parte 2 di “Picnic all’inferno”, un testo al limite del banale, tanto ovvio da essere al limite dello sbadiglio.  

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