Voci di corsia, Carmela:«Vado alla ricerca di un goal nel cuore e nella vita delle persone
Ospedale Cotugno, Napoli e questa è la testimonianza di Carmela, un lungo post per raccontare la sua storia di corsia:
«È più o meno un mese che lavoro al Cotugno e che insieme ai miei colleghi assisto le persone affette da Covid-19. Ci bardiamo dalla testa ai piedi e talvolta quando entro nelle camere dai pazienti dico scherzosamente: "Indovina chi c'è qui sotto?!". Non mi permetto con tutti, lo faccio quando penso di esserci entrata un po' piu in confidenza per averci parlato al telefono o esserci visti, si fa per dire, entrando in camera. Qualcuno penserà "ma che vuole questa? È seria?", oppure "che tipo, così conciata chi ti vede!". Beh, so che parto con una domanda difficile, come se non bastasse il contorno, e forse anche stupida, ma credo serva più a me che a loro per rompere il ghiaccio e per "accorciare le distanze nei limiti", cose già non semplici in tempi "di pace", figuriamoci adesso. Dicevo, è una domanda difficile perché la mia voce, potere della mascherina, non può somigliare di certo a quella che sentono al telefono quando chiamo e gli dico "Salve, sono Carmela (Mela) l'infermiera di reparto...". Non gli somiglia per niente e non solo per la mascherina che la camuffa, ma anche per la miriade di pensieri e di emozioni che le danno un tono e un suono diversi e che si accavallano quando entro in quelle stanze chiudendo la porta alle mie spalle e "Sbam!". Eh sì, sono in stanza e ho appena bucato una bolla enorme, ci sono dentro e non percepisco più il tempo, non sento nulla di tutto quello che accade fuori. Sembra di essere in un'altra dimensione, di essere atterrata su un altro pianeta. La bocca e la gola diventano un po' più secche, berrei volentieri, e un prurito sul volto mi infastidisce proprio nel momento meno opportuno, non posso placarlo. Il rumore del mio respiro costante si sente bello forte, meglio distrarmi e non pensarci per non farne aumentare ancora di più la frequenza, ed è accompagnato dai rumori plastici della tuta che struscia su se stessa ad ogni piccolo movimento o passo e dalle parole ovattate scambiate con il paziente che sembrano come messe sottovuoto. Con gli occhiali protettivi, che si appannano sempre un po' di più ad ogni respiro e parola, e con il visore, che schermaglia ulteriormente tutto il volto, pure gli occhi, specchio dell'anima, sono difficili da decifrare e riconoscere, anche se sorridono con qualche timore. E allora come faccio a far capire chi si protegge sotto tutto sto sto casino?! C'è un modo! Esiste un modo per concludere questo stupido indovinello. Mi giro di spalle e mostro il mio nome segnato sulla tuta. Infatti, prima di entrare nelle stanze, se c'è tempo, tra colleghi ci scriviamo a vicenda il nome sul retro delle tute, talvolta accompagnato da qualche scritta scherzosa, per riconoscerci tra noi e per identificarci con i pazienti. I nostri nomi, segnati con un pennarello, sono l'ultimo accessorio che indossiamo.
La vestizione è completa, mi dico: "OK. Sono pronta, vado!". Vado, portando sulle spalle non solo un nome, ma responsabilità per la tuta che indosso con attenzione, per ciò che faccio con impegno e per ciò che sono con orgoglio. Vado...alla ricerca di un goal nel cuore e nella vita delle persone che troveranno in me un compagno con cui vincere la loro partita, quella partita che è anche nostra!».