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Il Covid e l’indifferenza di chi ci ha messo a tacere… di chi non ci ha ascoltato nonostante stessimo urlando


Elisa Acquaviva -  È strano, eh? Non so cosa dire. Fa strano perché, solitamente, persone come noi hanno sempre qualcosa da dire… perché “sentono”.

Ma nell’arco di tempo di un anno, da quando un virus ha preso possesso del mondo, non si ha quasi più nulla da dire. Perché ci è stato vietato. E la cosa che mi fa rabbia è che ci stiamo abituando a questo, come se fosse normale. Si, noi parliamo con il corpo, con i movimenti, con la musica.

Ci esprimiamo così. E ci è stato vietato.

“Torneremo più forti di prima” lo abbiamo raccontato a noi stessi tante volte e io ci credo, eh! Ci credo ancora tanto. Guai se morisse la speranza. Solo che nel primo periodo ti fai forza e dici “Va beh, indosso le cuffie e ballo comunque. Che sarà mai? Passerà.”

Però poi ti accorgi che non basta più. Non basta più perché il comò del salotto di casa tua non applaude e i lampadari non sono abbastanza forti come le luci di un teatro, quelle che maledici durante un saggio di danza perché ti acciecano e ti fanno sudare anche l’acqua del battesimo.

Si, ci mancano anche quelle. Perché ci tengono in vita. Ciò che mi ha ucciso più di tutto, forse, non è stato lo “stop” in sé per quanto questo ovviamente sia scontato. Ciò che mi ha ucciso più di tutto è stata l’indifferenza.

L’indifferenza da parte di chi ci ha messo a tacere, anzi… di chi non ci ha ascoltato nonostante stessimo urlando. L’indifferenza della gente, che l’ennesima volta risponde al tuo dolore con “Ma perché? È un lavoro il tuo?”

Ho visto donne in gamba reinventarsi, accettare qualsiasi tipo di lavoro pur di non abbassare la serranda della propria scuola di danza per sempre.

La gente? La gente ha esordito in tono pizzuto con “L’ho vista lavorare come commessa ma ha abbassato lo sguardo perché sicuramente si vergogna!”

Beh, io a questa gente, che solitamente appartiene alla categoria del famigerato “posto fisso”, dico… non c’è nulla, non c’è veramente nulla da sbeffeggiare in queste persone. Si sono rimboccate le maniche e non hanno mollato pur di non perdere i propri sogni.

Ammiratele, perché non hanno perso e mai lo faranno. La danza insegna disciplina, costanza e sacrificio che probabilmente non si trovano in nessun contratto a tempo indeterminato del mondo.

Logicamente parlo in modo generale, perché c’è stata anche tanta altra gente che invece ci ha incoraggiato e sostenuto ma certe cose le ho ascoltate con le mie orecchie, quindi parlo con cognizione di causa. “Il vostro settore ormai è morto”, mi è stato detto. Ma per chi? È morto per chi? Per chi ha lasciato il mondo della danza o colto semplicemente la palla al balzo per farlo perché non ne aveva più voglia.

È morto per chi ha fatto di tutto per rimanere a galla ma purtroppo non ce l’ha fatta, e a loro va la mia più grande ammirazione e il mio affettuoso sostegno, se può servire a qualcosa. Quello della danza, inteso come settore, non può morire. Mi state dicendo, altrimenti, che non ci saranno più scuole di danza, o di arte in genere, sulla Terra? Provate a dirlo a chi non ascolta la musica apposta per non soffrire. No, anzi, non ve lo chiedo nemmeno. Bisogna avere empatia per mettersi nei panni degli altri e, i nostri panni, sono sempre i più difficili da indossare. Non posso chiedere ad un elefante di entrare in un bicchiere di cristallo.

Naturalmente noi siamo ancora qui che ci divincoliamo per sopravvivere, che teniamo stretti a noi, con le unghie e con i denti, i nostri sogni. A chi ci è vicino e comprende la nostra amarezza, dico semplicemente “Grazie di cuore”. A chi purtroppo non ce l’ha fatta e ha dovuto rinunciare ai propri sogni, non riesco a dire nulla, non me ne sento degna. Penso solo che ci voglia davvero un gran coraggio. A chi ci sbeffeggia e ci scoraggia dico…“Ve lo ricordate ancora come si fa a sognare?”

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