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La Voce Grossa di…Michela Santoboni(intervista): « Il giornalismo è una missione…significa andare oltre ciò che si pubblica»



La voce di quest’oggi è una delle voci emergenti più dinamiche del panorama giornalistico italiano. Ha costruito il suo percorso professionale unendo passione per il calcio e competenze multimediali. Ad oggi è uno dei volti di LazioTv oltra a collabora con testate come NoiBiancoCelesti.com, dove segue con attenzione il mondo della Lazio, il calciomercato e gli eventi legati alla Serie A.

La sua capacità di raccontare il calcio con un linguaggio diretto e coinvolgente le ha permesso di guadagnare una community attiva anche sui social network, diventando un punto di riferimento per tifosi e appassionati.

Sulle pagine de La Voce Grossa ospitiamo quest’oggi la voce di Michela Santoboni.

Quando hai capito che il giornalismo sarebbe stato il tuo percorso, e qual è stato il momento “non scritto” che ti ha dato conferma?
R: «Credo di averlo capito nel momento in cui mi sono resa conto che avevo bisogno di raccontare storie e di dare voce a chi spesso non ha voce. Non credo sia stato un momento preciso: è successo tra un’intervista e l’altra, con una serie di piccoli segnali. Il momento “non scritto”, quello che mi ha dato conferma, è arrivato dietro le telecamere: quando durante una chiacchierata con una persona incontrata per caso, quella persona ti ringrazia per essere stata ascoltata, capisci che il quella è la tua strada. Il giornalismo è una missione, è andare oltre ciò che si pubblica».

Nel raccontare una partita spesso si usano statistiche e cronaca: qual è il dettaglio apparentemente insignificante che, secondo te, può cambiare completamente il modo di viverla?
R: «E’ tutto quello che non finisce nei tabellini, ma che racconta molto più del risultato finale. Osservo molto i giocatori in campo, cerco di capire quello che si dicono, come si guardano. Con un occhio rivolto sempre in panchina, nei momenti in cui l’allenatore osserva la squadra in silenzio. Un altro punto di riferimento è il dodicesimo uomo in campo, il pubblico. Le statistiche aiutano a capire cosa è successo, ma sono i dettagli dei vari interpreti a spiegare come e perché. A volte è quel gesto fuori campo a farti intuire che magari quella partita ha un significato più profondo. Il racconto sportivo diventa di valore quando è anche racconto umano».

Qual è stata l’intervista più difficile che hai fatto, e quale invece quella che ti ha lasciato un ricordo inaspettatamente umano?
R: «L’intervista più difficile, senza dubbio, è stata quella alla famiglia di Satnam Singh. Non tanto per il dolore tangibile, piuttosto per il peso etico di dover raccontare una tragedia umana incredibile, senza tradire la dignità di chi stava parlando. Quando sei davanti a una famiglia che ha subito una ingiustizia tale cerchi, attraverso le domande, di restituire loro rispetto e verità».


Quella inaspettata?
R: «Quella che invece mi ha lasciato un ricordo inaspettatamente umano è stata l’intervista alla sindaca di Latina, Matilde Celentano, che aveva subito commenti ironici sui suoi capelli, dopo la malattia. Ho incontrato una donna che ha scelto di esporsi, di non nascondersi, di trasformare un attacco meschino in un’occasione di consapevolezza. È stato un dialogo che ha superato la cronaca: c’era una tale dignità, forza e quel coraggio, così semplice e potente, che andava oltre il medico ed il personaggio politico, e restava la donna».

Se potessi descrivere il tuo stile giornalistico con una metafora visiva (un colore, un paesaggio, una scena di film), cosa sceglieresti?
R: «Sceglierei una strada di campagna, magari al tramonto, da percorrere con il taccuino in tasca come quelli che i cronisti usavano un tempo. Non è spettacolare, non è rumorosa, ma è vera: ti costringe a camminare piano, ad ascoltare i suoni intorno, a notare i dettagli che chi corre non vede. Andare nei luoghi, senza fretta di arrivare primi, ma con il desiderio di arrivare giusti per raccontare le cose che a volte non fanno rumore, ma che hanno molto da dire».

Cosa hai imparato sul calcio osservandolo da cronista che non avresti mai immaginato da tifosa o spettatrice?
R: «Da cronista ho capito che non sempre la verità sta nei novanta minuti. A volte, quello che succede fuori dal campo racconta molto di più. Sono tanti i dettagli che sfuggono allo sguardo di un tifoso. Dagli spalti ti disinteressi del racconto, vivi solo ed esclusivamente di passione e sentimento. Da cronista, ho capito che per raccontare devi riuscire a stare in quella zona d’ombra tra il visibile e ciò che si intuisce. E’ fondamentale, per poter andare oltre».

Qual è la critica che ti ha ferita di più nel lavoro e che col tempo sei riuscita a trasformare in un punto di forza?
R: «La critica che mi ha ferita di più non riguardava un errore professionale, ma qualcosa di molto più personale: il mio aspetto. All’inizio, soprattutto quando lavoravo sul campo, ho sentito frasi che riducevano il mio lavoro a una questione di immagine. Col tempo, però, ho capito che l’essere piacenti non è una colpa, né un limite. L’importante è non permettere che diventi l’unica cosa per cui vieni ascoltata. Ho imparato a non dover dimostrare nulla, ma a lasciare che fosse il lavoro, la costanza, la preparazione a parlare».

Se potessi riscrivere un tuo articolo come fosse un racconto breve o un pezzo di narrativa, quale sceglieresti e come cambierebbe il tono?
R: «Ah, facile. Riscriverei l’articolo di quando la Lazio Primavera finì per la prima volta nella storia in “Serie B”. Il mio direttore dell’epoca, approvò e pubblicò il pezzo con entusiasmo. Io, tutta fiera, pronta a incorniciarlo. L’articolo era basato su dati oggettivi, concreti e comprovati. A qualcuno però, decisamente non piacque. Quell’articolo mi creò dei problemi. Oggi lo riscriverei col tono di chi sa di avere ragione, ma che non ha più bisogno di chiedere il permesso per dirlo. Mi toglierei i guanti bianchi: la verità con i toni giusti non è mai sbagliata».


Qual è stata la tua vittoria personale più grande come giornalista, quella che non si può misurare con titoli o ascolti?
R: «Deve ancora arrivare. Non perché non ci siano stati momenti importanti o soddisfazioni personali. Ma quella vera, quella che senti addosso come una conquista profonda e duratura, credo sia ancora sulla strada. Forse sarà un’intervista che farà davvero la differenza per qualcuno. O forse solo per me. La mia vittoria più grande sarà quando riuscirò a raccontare qualcosa che non cerca applausi, ma lascia un segno. E finché non succede, continuerò a lavorarci».

Immagina di avere davanti uno studente di giornalismo: quale partita useresti come “lezione magistrale” per insegnargli a raccontare lo sport?
R: «Userei una partita in cui non è successo assolutamente niente. Uno 0-0 senza emozioni, senza occasioni clamorose, senza nemmeno una polemica su cui appoggiarsi. Il tipo di gara che, da spettatore, ti fa pensare: “Perché l’ho guardata?”. Il giornalismo sportivo è saper raccontare qualcosa anche quando non succede niente. E’ lì che capisci se hai davvero qualcosa da dire».

C’è un progetto o un sogno professionale che non hai mai detto a nessuno e che ti piacerebbe realizzare nei prossimi anni?
R: «n realtà, non ho un progetto o un sogno “segreto” in senso stretto. Più che altro, ho una voglia costante di crescere. Voglio migliorare ogni giorno, capire come raccontare meglio le storie. Sono convinta che solo continuando a lavorare con passione e curiosità, qualcosa di nuovo e interessante arriverà. E quando succederà, sarò pronta a coglierlo, senza paura di mettermi in gioco o di uscire dalla mia zona di comfort. Penso che il segreto sia non smettere mai di imparare, di esplorare, di spingersi oltre. Il resto…verrà da sé».

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