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La Voce Grossa di…Roberta Fontana(intervista): «…oggi la competenza femminile nel giornalismo sportivo è riconosciuta…ma non sempre valorizzata»


Nicola Ricchitelli – La voce di quest’oggi è una delle nuove voci più interessanti del giornalismo sportivo italiano. Su Sportitalia conduce e firma “Zona Fontana”, un format che porta il suo nome e il suo stile: ritmo, autenticità e dialoghi veri con ospiti e protagonisti del mondo dello sport.

Dietro la sicurezza della conduttrice c’è una professionista che ha costruito il proprio percorso passo dopo passo, tra radio, televisione e redazioni, con la voglia di raccontare lo sport in modo diverso, più umano, più vicino alle emozioni di chi lo vive ogni giorno.

Sulle pagine de La Voce Grossa, direttamente dagli studi di SportItalia, accogliamo la voce di Roberta Fontana.

“Zona Fontana” è un progetto che porta il tuo nome: quanto c’è della tua visione personale nel modo in cui il programma racconta lo sport?
R: «C’è moltissimo. Zona Fontana nasce dal desiderio di raccontare lo sport non solo come competizione, ma come linguaggio umano, fatto di emozioni, contrasti, e anche ironia. Ho voluto un programma che fosse vero, spontaneo, e che rispecchiasse la mia idea di televisione: quella in cui l’informazione si intreccia con il racconto, e ogni ospite ha spazio per esprimersi, non per “ripetere” ciò che già si sa».

Nel panorama mediatico attuale, dove i contenuti sportivi si consumano in pochi secondi, come si costruisce ancora un racconto che lasci il segno?
R: «Credo che oggi la differenza la faccia l’autenticità. Il pubblico è abituato a vedere tutto, subito, ma riconosce quando un racconto è sincero. Per lasciare il segno devi fermarti, approfondire, e soprattutto ascoltare. Zona Fontana non corre dietro alla notizia: la guarda, la analizza e la restituisce con uno sguardo personale. È questo che resta».

Hai dichiarato più volte che la spontaneità è la tua cifra stilistica: come si concilia con la necessità di mantenere rigore e credibilità giornalistica?
R: «La spontaneità non è improvvisazione: è saper essere sé stessi anche dentro una struttura solida. Il rigore è fondamentale, ma non deve soffocare la personalità. Penso che il pubblico voglia verità, e la verità passa anche attraverso un sorriso, una reazione istintiva, un modo umano di stare in video. L’importante è non perdere mai il rispetto per il mestiere e per chi ti ascolta».

Cosa distingue, secondo te, un conduttore sportivo da un vero comunicatore dello sport?
R: «Un conduttore racconta ciò che accade. Un comunicatore trasmette ciò che lo sport significa. Il comunicatore sa andare oltre il risultato, sa creare empatia, far rivivere le emozioni di una partita, di un gesto, di una storia. Io credo che chi fa televisione sportiva debba saper “sentire” prima ancora che raccontare».

Viviamo in un’epoca in cui lo sport è anche spettacolo, immagine, intrattenimento: dove si traccia oggi il confine tra informazione e show?
R: «Quel confine è sottile, ma non deve diventare una scusa per perdere serietà. Lo sport ha una forza spettacolare naturale, non serve forzarlo. L’informazione deve restare il cuore, poi puoi vestirla con ritmo, con stile, con una conduzione più fresca. Ma l’equilibrio è tutto: se diventa solo show, si perde credibilità; se resta solo informazione, rischia di non arrivare più».

Qual è stata la sfida professionale più significativa nel portare un linguaggio televisivo più contemporaneo su una rete come Sportitalia?
R: «La sfida è stata rompere gli schemi senza perdere l’identità della rete. Sportitalia è una casa storica del calcio, e portare dentro un linguaggio più moderno, più vicino ai social e al pubblico giovane, richiedeva coraggio e rispetto. Abbiamo costruito un format che dialoga con le nuove generazioni ma resta fedele al giornalismo sportivo. È questo equilibrio, secondo me, la vera vittoria».

Se dovessi scegliere un episodio, una diretta o un’intervista che ha definito la tua crescita professionale, quale sarebbe?
R: «Forse non ce n’è uno solo, ma ricordo una diretta particolarmente intensa, con un confronto acceso tra due grandi protagonisti del calcio. In quel momento ho capito che condurre non significa solo gestire il tempo o la parola, ma saper ascoltare, mediare e tenere insieme emozioni forti. È lì che ho sentito di essere cresciuta, come professionista e come persona».

La figura femminile nel giornalismo sportivo è in evoluzione: quali aspetti pensi siano ancora da consolidare, oltre i cliché?
R: «Siamo cambiate molto, ma c’è ancora strada da fare. Oggi la competenza femminile nel giornalismo sportivo è riconosciuta, ma non sempre valorizzata come dovrebbe. Spesso si tende ancora a etichettare, a distinguere “giornalista donna” da “giornalista”, quando la differenza non dovrebbe esistere. Credo che il passo successivo sia normalizzare la presenza femminile non solo nella conduzione, ma anche nei ruoli di analisi e direzione. Non serve imitare i modelli maschili: serve portare il nostro sguardo, la nostra sensibilità e la nostra forza naturale».


Come costruisci la tua autorevolezza in un ambiente dove la visibilità spesso precede la competenza?
R: «Con la coerenza, e con il lavoro quotidiano. Oggi è facile ottenere attenzione, ma difficile mantenerla se dietro non c’è sostanza. Io credo che l’autorevolezza si costruisca nel tempo, con preparazione, con rispetto verso chi ti segue e con la capacità di dire la tua senza mai cercare la provocazione fine a se stessa. La visibilità passa, la credibilità resta. E il pubblico questo lo sente, sempre».

Guardando avanti, come immagini il futuro della comunicazione sportiva nei prossimi cinque anni — più tecnologia o più empatia?
R: «Penso che la vera sfida sarà unire le due cose. La tecnologia ci offre strumenti straordinari per raccontare lo sport in modo più immediato e interattivo, ma l’empatia resta l’anima della comunicazione. Le persone vogliono sentirsi coinvolte, non solo informate. Quindi immagino un futuro in cui l’innovazione sarà al servizio dell’emozione e non il contrario».

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