“I Fedelissimi”, storia di un club e di calcio di altri tempi che oramai non esiste più
A
difendere i pali erano in due, stesso nome e stesso cognome, uno aveva i
capelli rossi l’altro castani, uno portava la maglia numero uno, l’altro il
dodici, appunto dodici erano i mesi che li dividevano.
Dalla
panchina di tanto in tanto volava un «baccalà!!!», vuoi per un goal sbagliato vuoi
per una palla persa a centrocampo, vuoi per un passaggio sbagliato, e perché
no, vuoi perché dopo un goal ci si perdeva troppo nelle esultanze. Perché in
fondo lui a pensarci bene non amava molto esultare, al massimo si compiaceva
quando vedeva uno dei suoi fare una bella giocata o quando vedeva un bel goal.
Una
maglia pesante quasi trent’anni quella biancorossa de “I Fedelissimi”, una
maglia capace di scrivere pagine importanti della storia calcistica giovanile
barlettana, una maglia che più di ogni altra ha rappresentato quel calcio
genuino e verace oramai scomparso dai campetti di gioco. Era il calcio della
preparazione di fine agosto a correre sulla spiaggia di ponente con
appuntamento alle ore 7, delle corse lungo la salita che costeggia la caserma
della Guardia di Finanza fino alla vecchia chiesa di san Michele, e quindi
marcia pesante ora cercate di risalire quella salita con la bicicletta. Era il
calcio dei salti di zemaniana memoria sulle tribune del nuovo stadio
“C.Puttilli”, delle
maglie indossate nelle partite del sabato – o della domenica – da riportare
lavate il lunedi al massimo il martedi.
Era
il calcio della sera a ”magnare” focaccia e mortadella in quella vecchia sede
di via san San Samuele per poi tirare fino a tarda sera mentre si parlava di
Baggio che era si un campione ma che non risolveva le partite, di Totti e i
suoi capelli, delle formazioni del fantacalcio scritte sul foglietto di carta
mentre nel frattempo il mister rispolverava i ricordi di quei campionati vinti
e dei suoi ragazzi divenuti calciatori professionisti.
E
poi ancora, la convocazione alle 19 il venerdì – tutti convocati nessuno
escluso – degli allenamenti il martedi e il giovedi - alle tre in punto si inizia
che domenica tre punti non ce li regala nessuno – degli appuntamenti alle ore 7
allo stadio Simeone la domenica mattina, il ritrovo alle ore 6 al “Bar Viola” e
quindi due cornetti e un cappuccino che alle otto si gioca, senza padri a
gridare sugli spalti cose di ogni tipo nei confronti dell’arbitro, senza padri
a convincersi e farci credere quali nuovi eredi di quel tal Diego Armando.
Era
il calcio di Angelo, il mister Angelo, Angelo Rinaldi se proprio si vuole
andare in fondo alla carta di identità, perchè dire “I Fedelissimi” voleva dire
lui e soltanto lui – al netto di presidenti vari - e forse non sarebbero
esistiti l’uno senza l’altro. Una vita, tanto ha dato a questo sport quel
vecchio leone della panchina che cercava di insegnare in ogni modo e a suo modo
movimenti, tattiche e moduli. A volte bastava una scacchiera, mentre tra una
partita e l’altra sul tavolo da dama, con una pedina riusciva a spiegarti una
marcatura sbagliata e un goal preso su calcio da fermo, a spiegarti quel suo
concetto di 4-4-2 - suo vero credo con tanto di rombo a centrocampo e tre
quartista dietro le due punte - a quel 5-3-2 modulo che egli stesso definiva
ignorante che metteva in campo per l’appunto nelle emergenze per cercare di
prenderne il meno possibile.
Dagli
anni settanta agli ottanta, passando dai novanta arrivando ai duemila, in
quella maglia ci sono passati in tanti e forse un po’ tutti. La maglia dei “I
Fedelissimi” era la maglia di un calcio fatto per tutti, bastava solo amare
quel pallone e avere tanta voglia di correre su e giù in quel rettangolo di
gioco.