La Voce Grossa di…Don Rino Caporusso:« la mia Comunità sia una Chiesa di strada»
Nicola Ricchitelli - Di seguito
l’intervista integrale realizzata qualche settimana fa a Don Rino Caporusso
dopo la pubblicazione in forma ridotta sulla versione cartacea del nostro
magazine. Dalle esperienze nelle terre del Brasile all’arrivo nella comunità
parrocchiale del SS.Crocifisso dove si ritrova a raccogliere la pesante eredità
lasciate in dote dall’indimenticato don Luigi Filannino.
D: Dunque don Rino, cosa significa ai giorni
d’oggi indossare una tonaca?
R:«Indossare
una tonaca equivale a chiedersi cosa significa essere uomini oggi, marito,
moglie, cristiano e prete. Significa quindi AVERE CUORE. Se oggi nella mia
testa capisco di non avere un cuore io non posso essere davvero un bravo umano,
ne essere una persona cristiana e quindi essere un buon prete ».
D: Cosa
significa avere cuore quindi…?
R:«Nelle
sacre scritture il cuore è la sede della vita interiore, dove ci sono le
dimensioni creativa, intellettiva, morale e spirituale. Se il mio cuore in
realtà è diviso, inquieto, distratto, appesantito, ha bisogno al contrario di
essere unificato, pacificato, ammorbidito e riconciliato. Quando può avvenire
questo? Quando davvero il mio cuore vive una serenità e un equilibrio
interiore, difatti se esiste un servizio più alto e più nobile che si possa
fare all’umanità, lo si può fare quando una persona ha il cuore riconciliato,
equilibrato, sereno. Sant’Agostino ha invitato l’uomo di ogni epoca a tornare
al proprio cuore e a vedere che proprio lì c’è l’immagine di Dio. Allora si riesce
ad essere uomo/donna, ad essere attento a tutto ciò che hai intorno. Isacco il Siro
(un monaco del deserto) diceva che quando consideri buone tutte le persone e
tutti gli uomini, allora il tuo cuore avrà trovato la pace interiore. Questo
vuole dire che dal tuo cuore, di ognuno di noi si vede con i proprio occhi che
il prossimo non è solo cattiveria, ma vi può essere anche bontà d’animo. Quindi
io mi auguro che ognuno di noi si impegni ad avere uno sguardo pulito nei
confronti del prossimo. Non è possibile avere sempre pregiudizi. Perché il
pregiudizio non può essere alla base di un rapporto tra persone».
D: Quando hai
capito che Gesù sarebbe stata la tua vita?
R:«
Ma diciamo subito che questa non è una cosa automatica. È una cosa che si
scopre cammin facendo. Come dicono i brasiliani “cammin facendo si apre la
strada”, lo stesso vale per una chiamata specifica o quando uno sente di
volersi sposare. Crescendo il Signore ti mette al fianco delle persone che ti
aprono il cuore, e ti portano a questionarti. Io ho avuto dei grandi testimoni
e dei grossi esempi che mi hanno aiutato in questa mia crescita. Devo molto ad
esempio alla mia maestra delle elementari, che oggi nonostante la sua età viene
qui in parrocchia a riflettere con me sulla parola di Dio, ed è orgogliosissima
del suo alunno che oggi è sacerdote. Lei ogni giorni ci faceva recitare una
preghiera di Raoul Follereau, “Signore
insegnaci a non amare noi stessi, a non amare soltanto i nostri, a non amare
soltanto quelli che amiamo…”, e mi ha educato alla generosità verso i
lebbrosi, verso chi avesse bisogno. PICCOLI SEGNALI che ti portano a chiedere,
ma io posso fare di più nella mia vita? Possibile che la mia vita possa
significare solo alzarmi il mattino, andare a scuola, lavorare, mangiare, avere
i figli, fare la spesa, e tanti problemi? Non c’è qualcosa di più nella mia
vita per cui io sono stato chiamato a realizzare? Ecco, lì scopri che ogni
giorno è un SI di amore, un SI della gratuità. Nel mio caso 20 anni fa il
vescovo Cassati mi chiese di iniziare ad essere prete in una zona poverissima
del Brasile nella pre-foresta Amazzonica (S. Helena) e quindi iniziai a
raggiungere località lontane, e iniziai a portare con la mia persona il nome
della nostra Arcidiocesi e della città di Barletta in quei luoghi dove una
parola di consolazione e la presenza di uno straniero del primo mondo, 1hanno
dato coraggio e speranza per quelli che lottano ogni giorno contro la povertà,
la corruzione politica e lo sfruttamento di ogni genere».
D: Hai mai
pensato alla tua vita se tu non fossi diventato un sacerdote?
R:«Certo
di fatti la decisione definitiva l’ho presa dopo le scuole medie superiori. Sono
entrato in seminario da adulto, la cosi detta vocazione adulta. Infatti dopo il
diploma di magistrale, mi presi ulteriori due anni di riflessioni, trascorsi nel seminario delle vocazioni adulte
vicino Siena. Un discernimento vocazionale, valutato, ponderato, se era il caso
o no di consacrarmi al Signore ».
D:Quali sono
state le tue figure di riferimento nel corso del tuo cammino?
R:«
Come dicevo ho conosciuto grandi
testimonianze di persone che mi hanno aiutato in questo lungo cammino. Per esempio
il mio primo parroco di San Benedetto, don Antonio Casardi. Anche se non l’ho
conosciuto personalmente la gente del quartiere lo ricorda molto bene perché
come si dice qui a Barletta “sciav dunen i pezz c’u traien” – andava
raccogliendo le pezze e cartoni con il traino - per costruire la Chiesa di San
Benedetto. Per molta gente dell’epoca e per i ben pensanti quest’atteggiamento non
era cosa da farsi. A me ha lasciato un grande insegnamento, cioè dalle cose
umili si costruiscono le grandi cose. E’ stato significativo il suo successore,
don Vincenzo Frezza, una persona molto umile e buona; don Tonino Bello, ecc».
D: Momenti
difficili in questo lungo cammino che ti ha portato fin qui?
R:«
Si. Due in particolare. Il primo quando sono stato in Brasile. Il mio
predecessore che era in quel villaggio da venticinque anni, oltre ad essere un
sacerdote, era prima di tutto un medico, e da quelle zone la figura del medico
contava più del sindaco stesso e del prete, perché la salute era la cosa più
importante. Lì la gente quando andava in parrocchia cercava sia il prete, ma
soprattutto il medico. E’ chiaro che è stato difficile sostituire una figura
così importante e salutare per quella gente. Per me che iniziavo un servizio è
stato molto impegnativo e stimolante, però pian piano ho iniziato ad entrare
nelle case della gente e quindi nella loro vita e nel loro cuore. Le situazioni
estreme di povertà mi hanno maturato a cogliere sempre l’essenziale in quello
che vivo e in quello che dico. Ho toccato con mano il volto di Dio sofferente e
umiliato dall’uomo senza cuore. Un altro momento difficile è stato al mio
arrivo qui nella parrocchia del SS.Crocifisso. Perché la morte di don Luigi ha
lasciato un segno forte nel quartiere Patalini ed essere il suo successore non
è cosa facile».
D: Quale il tuo
parere sullo stato della Chiesa oggi?
R:«Oggi
la Chiesa come la Chiesa di ogni epoca è sempre in cammino di purificazione e
trasparenza. In cammino sulle acque della storia, in cammino con grandi
timonieri. Ma oggi c’è tanto bisogno di vivere la CULTURA DELL’ESSERE. Dico
spesso ai giovani che la pace e la giustizia non si fa in piazza con le
bandiere, e nemmeno dai pulpiti distanti dove solo la retorica vuota trova
posto. La pace, la giustizia, la solidarietà si fa col verbo essere: bisogna
essere pace e non fare la pace. Bisogna essere giusti, bisogna essere solidali.
Papa Francesco è un timoniere che in buona continuità con chi l’ha preceduto sa
spiegare, dare bene le indicazioni come camminare e navigare. E’ un uomo che ha
autorità perché quello che dice lo vive in prima persona, sull’esempio del
Maestro».
D: Come si
compone la tua giornata tipo?
R:«La
mia giornata apre e chiude con la preghiera, senza l’aiuto di Dio e la forza
della preghiera sembra essere come galline che non spiccheranno mai il volo ma
che muovono le ali invano.
Ogni
giorno mi ritrovo a cambiare sempre programma e se non sono preparato a questo
mi disoriento. Hai visto questa mattina cosa è successo prima che arrivassi tu?
E’ così ogni giorno: essere pronto ad accettare la gratitudine e l’ingratitudine».
D: Parlaci un
po’ della tua comunità parrocchiale, quali i connotati che la
contraddistinguono?
R:«Sono
il terzo parroco, è una comunità giovane, è una comunità che ha sofferto per la
perdita di un padre, don Luigi. Vedo intorno a me povertà esistenziali ed
economiche. C’è bisogno di coniugare meglio il dialogo tra generazioni e il
dialogo tra fede e vita. Offrendo anche un modus vivendi alternativo
(soprattutto spezzare il pane della solidarietà) vivendo bene con il prossimo e
incontrando le persone. L’indimenticabile don Tonino diceva che si cresce,
quante più mani si stringono lungo il cammino e quante più persone si conoscono
durante la vita».
D: Un sacerdote
ha dei sogni nel cassetto?
R:«Si,
è lo stesso sogno di Dio: svegliarsi dall’indifferenza e lasciare questo mondo
più bello di quanto l’abbiamo trovato. Chiedo sempre di essere orgogliosi di
aiutare Dio in questo sogno: prestando al Signore ogni giorno il nostro cuore e
la nostra intelligenza per capire e amare, le nostre mani per fare qualcosa, i
nostri piedi per andare in situazioni difficili, ecc».
D: Un sacerdote
pensa mai alla carriera…?
R:«La
vita di un sacerdote non è vita del militare. Se facessi della mia vita un fare
carriera non ho capito proprio niente. Se avessi voluto fare soldi o prestigio
di vita mi sarei dovuto dedicare ad altro. Vedi Papa Benedetto: c’è stato di
grande insegnamento dove ha considerato il suo papato non da imperatore (che
non abdica mai) ma da servitore umile. La vita del prete è servizio».
D: Cosa ti
aspetti per il tuo futuro per te e per la tua comunità parrocchiale?
R:«Per
la comunità che il Signore mi ha affidato, ho realizzato forse il 20-30% di
quello che avrei in mente. Sono stato comunque attento a coltivare ciò che ho dentro la parrocchia (persone e strutture),
a coltivare il dialogo con tutto ciò che è il mondo intorno alla parrocchia,
curando il dialogo con le istituzioni, il mondo culturale e quindi il mondo
della scuola, dello sport, dell’associazionismo. Cercare intesa con famiglie
separate e molto vicino a famiglie che non riescono a pagarsi la bombola del
gas. Ma soprattutto ho cercato di stare attento ai lontani, ancora oggi io ho
con me in parrocchia, un giovane della Nigeria che sta studiando, e lo sento
figlio della comunità, poco prima avevo un ragazzo della Birmania. Che
significa ospitare questi ragazzi? Significa occuparsi e preoccuparsi di tutto.
Come parrocchia abbiamo anche adottato una bambina a distanza, in Brasile.
Insomma la mia preoccupazione è per vicini ma si allarga anche ai lontani.
Quindi alla domanda su cosa mi aspetto dalla comunità, ecco io mi aspetto che
non sia una comparsa. La comunità che il mio cuore desidera, è una comunità che
non stia con le braccia conserte ad aspettare alla finestra. La mia deve essere
una chiesa di strada e un luogo che accoglie tutti. Noi cristiani, invece,
siamo quelli della via».