Barletta, “Pensate tutti a pregare per me…”, ecco il ricordo di don Gino Spadaro
Nicola Ricchitelli – L’amore per
la città di Barletta, il quartiere Santa Maria e soprattutto la parrocchia di
Sant’Andrea. Chi era Don Gino Spadaro? « Ti rispondo nel modo in cui lui stesso
ha voluto che fosse ricordato, facendolo scrivere sulla sua lapide: un
sacerdote...». In questa chiacchierata con suo nipote Victor si rincorrono i ricordi
ma soprattutto si delinea il profilo di questo Ministro di Dio molto amato
dalla sua gente.
D: Chi era don
Gino Spadaro?
R:«Ti
rispondo nel modo in cui lui stesso ha voluto che fosse ricordato, facendolo
scrivere sulla sua lapide: un sacerdote. E se io oggi ripenso a mio zio, non
posso che dire la stessa cosa. Perché il suo sacerdozio è stato molto più che
un ministero, ma ha rappresentato la cifra con la quale ha vissuto nella
famiglia, nella comunità cittadina, ritenendole pienamente Ecclesia e dunque
comunità cristiana. In tutto. Dalla celebrazione mattutina sino al suo lavoro
nella scuola, dall’amore per l’arte e la conoscenza (che erano parte integrante
del suo concetto di cristianesimo e che dunque non servivano alla pastorale ma
erano parte della pastorale stessa) al lavoro con i tossicodipendenti, con i
sordi, con le famiglie indigenti non solo del quartiere mariano».
D: Soprattutto, chi era don Gino
Spadaro per il quartiere di Santa Maria?
R:«Era
il parroco. Ed essendo il parroco, soprattutto in un quartiere dall’enorme
carica umana come era Santa Maria negli anni Ottanta e Novanta, era molto più
che un prete. Don Gino fu mandato nella chiesa del Purgatorio e poi,dal 1982, a
Sant’Andrea. Era molto giovane, ma aveva idee molto chiare e sapeva bene che
nella Barletta del tempo, una città certamente non facile, il quartiere mariano
era forse quello a maggiore responsabilità, per tradizione, storia e arte, alle
quali corrispondevano, però, povertà, fatica, rassegnazione. Chi ha vissuto
quei primi anni (e io non ero tra questi, per una questione di età) ricorda
quel periodo come un’era felice, perché si cominciò a seminare cultura, e il
senso di quella semina era Cristo. La biblioteca e il giornale parrocchiale, le
attività sportive, le gite-pellegrinaggio, i recital, l’insegnamento iconologico, ma anche il recupero pieno di
antiche tradizioni, come la Santa Allegrezza suonata nel periodo di Avvento e
cantata per le strade del quartiere al suono di fisarmonica, piatti, triangolo
e chitarra (oggi lo fanno tutti, Deo
gratias, allora non lo faceva nessuno e lui fu il primo, anche, mi
raccontano, subendo qualche sfottò dai soliti personaggi della cultura a la page che a Barletta non mancano mai).
Ma lui aveva capito che nella missione del sacerdozio per trovare Cristo si
deve guardare prima di tutto all’Uomo, che è Cristo e che, pertanto, è negli
uomini. E il senso di questo recupero della tradizione stava proprio in quella
ricerca spasmodica delle origini stesse del cristianesimo, pienamente radicate nella
storia e nella cultura del nostro popolo. Questo fu, a mio modo di vedere, il
miracolo che avvenne intorno a quell’esperienza, perché per la prima volta dopo
molto tempo, e paradossalmente, il quartiere di Santa Maria uscì nuovamente dai
suoi confini, facendosi città, come lo era stato a lungo nella storia di
Barletta. La parrocchia fu aperta non soltanto ai suoi abitanti, ma si riempì di
gente che veniva da ogni parte di Barletta. Tutto questo intorno a un sacerdote
che parlava chiaro e a tutti, ma anche intorno a due grandi gruppi di “giovani”:
quello del“Purgatorio”, così ricordato ancora oggi da molti dei suoi attivisti,
il primo vero gruppo giovani al quale don Gino è restato particolarmente
legato, e il gruppo “Icaro”, una fucina di ragazzi attivissimi, che vissero con
lui la stagione dei “sordi” – cioè della casa maschile per sordi studenti
dell’Istituto salesiano che fu ospitata prima in una casa in zona Patalini e
poi nei locali superiori della chiesa – ma anche quella della creatività – con
i grandi progetti musicali e i recital
– e quella del “mese di Maggio”, quando, chiusa la cattedrale per il ventennale
restauro, l’icona della Vergine dello Sterpeto era ospitata in chiesa durante
il mese mariano e poi, insieme a San Ruggero, durante la festa patronale. Erano
gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, gli anni dell’opulenza di questa città,
ma anche gli anni dell’eroina e di molta violenza, in un quartiere dove mancava
tutto, finanche l’illuminazione pubblica. Anni durissimi, che io ho vissuto nei
racconti di molti, della mia famiglia e nei miei ricordi personali, anche
legati a mio zio, che vorrei restassero per me».
D: Vi è un qualche episodio che
ricordi particolarmente che dia un po’ la dimensione del particolare legame tra
lui e il quartiere Santa Maria?
R:«I
funerali, i matrimoni, le comunioni, le cresime, le occasioni, insomma, in cui
il quartiere veniva tutto in chiesa. Erano i momenti in cui il legame di
rispetto e affetto tra il prete e i suoi parrocchiani diventava visibile.
Perché, per il resto, la vita del prete è fatta di lunghe ore di silenzio, di
visita agli ammalati, di dialogo con i più giovani, e anche, perché no, di quel
dialogo particolarissimo che si svolge con i più anziani, e della bellezza
della domenica, giornata nella quale il susseguirsi delle Messe scandisce anche
quello delle presenze e dei volti da riconoscere e salutare. Ma certamente
ricordo i momenti legati alla festa parrocchiale del “Cuore di Gesù”, alla
quale don Gino era legatissimo e intorno alla quale era riuscito a costruire un
solido tessuto di relazioni con quella parte della comunità parrocchiale più
restia a entrare in chiesa, ma che avverte il momento della festa come un
momento identitario forte, e si fa comunità. I miei ricordi personali,
comunque, sono più legati a un altro periodo dell’anno nel quale il legame con
la parrocchia – e con il quartiere – era solidissimo: la Pasqua. E non è un
caso che proprio nel Giovedì Santo del 2003, in uno dei giorni più solenni, nel
quale noi tutti eravamo presi dalla preparazione, ognuno con il suo compito,
del triduo pasquale, fu ricoverato nell’ospedale di San Giovanni Rotondo e solo
il giorno dopo, Venerdì Santo, nell’ora in cui usciva dalla chiesa Cattedrale
la processione eucaristica alla quale era votato da sempre, venimmo a sapere
della malattia che ce lo avrebbe tolto solo tre anni dopo. Ricordo quella
giornata tremenda nella quale fummo tutti chiamati a
gestire il nostro dolore nel dialogo fermo, anche violento con Cristo, al quale
rinfacciammo tutto durante la processione penitenziale del pomeriggio, e che
tutti, credo, riuscì a perdonare, perché ci diede la forza di reggere il peso
enorme di una comunità improvvisamente smarrita.Ricordo una struggente,
dolorosa, titanica per lo sforzo che tutti compiemmo nel portarla a termine,
Predica all’Oscuro, senza di lui, fino a due giorni prima presente nei
preparativi e poi, improvvisamente, assente. Ecco, quella sera nella sua
comunità, non solo nel quartiere, si è avvertito potente il legame esistente
con il suo parroco proprio attraverso la presenza di Cristo. So che queste
parole possono essere percepite come vuote o retoriche, soprattutto per i non
credenti, e ho meditato a lungo se dirtele. Ma sono la verità e non trovo un
modo meno diretto per pronunciarle».
D: Dal testamento spirituale da
lui finito redatto nel 2001, emerge un don Gino Spadaro molto severo con sé
stesso: «Turbato dalla memoria del male che posso aver fatto…», « Chiedo a
tutti di non voler ricordare le mie malizie…», « il male l'ho fatto tutto, il
bene sono riuscito talvolta a salutarlo dall’altro marciapiede». Cosa è stato
l’uomo Luigi Cosimo Damiano Spadaro e cosa è stato il don Gino Spadaro aldilà
di quello che abbiamo conosciuto?
R:«Don
Gino era un curioso, una persona che amava il bello e aveva buon gusto, un uomo
mite ma fermo, e con un carattere anche spigoloso; una persona che sapeva
ascoltare tutti dando a tutti la stessa attenzione. Non amava la banalità, ma
ricercava sempre la complessità delle cose. Suonava il pianoforte da
autodidatta e amava visceralmente la musica classica. Fumava Muratti, prima, e
poi Marlboro rosse e amava la buona cucina. Adorava, letteralmente adorava
l’arte e le città d’arte italiane, con alcune delle quali aveva un rapporto
quasi carnale: Assisi, Siena, Roma, non le ho mai sentite raccontare da
nessuno, come me le raccontava lui. Amava leggere e amava insegnare. L’insegnamento
è stata la sua seconda vocazione. È stato a lungo professore all’Istituto
tecnico per geometri di Barletta, e ancora oggi quando incontro qualche suo ex
alunno, nelle chiacchierate vengono fuori aneddoti esilaranti legati al suo
passato scolastico. In un’intervista del 2002, fatta dal gruppo giovanissimi
per il giornalino parrocchiale, così mio zio rispondeva a una domanda sulla sua
vocazione: «Quello che ho trovato nella mia storia è che il Signore mi ha
scelto e io ho fatto una grande difficoltà a rispondergli di sì, prima
sull’onda dell’entusiasmo, poi sull’onda della consapevolezza che voleva me,
anche con i miei limiti, o forse proprio per i miei limiti. Perché l'uomo
guarda le apparenze, Dio guarda il cuore. Quindi nella mia vocazione non
troverete niente da raccontare nei romanzi. Troverete piuttosto un bel po’ di
cadute». Ma sono proprio le cadute quelle che costruiscono le persone e ognuno
di noi, spesso involontariamente, può aver fatto del male. Il male, come diceva
la filosofa Hanna Arendt, è banale, e proprio per questo è quasi impossibile
non farne. Quello che è più difficile è fare del bene, con la consapevolezza di
stare facendo del bene e, per un sacerdote, con il dovere di doverlo
dimenticare nello stesso momento in cui lo si sta compiendo. Ecco perché quelle
frasi scritte nel suo testamento spirituale rispondono certamente a ricordi
suoi personali, ma altrettanto costituiscono l’ultimo insegnamento lasciato,
nella pratica dell’umiltà e della carità cristiana. Chi leggesse quelle parole
diversamente, sbaglierebbe».
D: «Ai miei Vescovi: vi ho amati,
anche quando non vi ho stimati o non vi ho obbedito», una frase che lascia
intendere un rapporto non proprio idilliaco con i suoi superiori nel corso
degli anni…
R:«Il
rapporto con i suoi Vescovi è stato sempre di obbedienza filiale, come si deve
ad ogni buon sacerdote. Ci sono, però, momenti in cui alcune scelte fatte dai
Vescovi possono aver destato scalpore. Forse tu stesso, leggendo quel passo,
avrai pensato a quando, nel 1997, fu trasferito al Buon Pastore per un breve
periodo. In quei giorni il rapporto con Sua Eccellenza Mons. Cassati, che per
inciso, è uno dei Vescovi che mio zio ha stimato di più e con il quale più è
stato in sintonia, parve lacerarsi. Ma forse, va detto, l’apparenza di quella
lacerazione era più nel vociare di una città che non vede l’ora di avere
qualcosa da raccontare, o in quello di due quartieri che perdevano le loro
guide e, in un certo senso, parte della propria identità, che nel rapporto tra il
Vescovo e il suo sacerdote o in quello tra don Gino e don Pino, all’epoca
parroco del Buon Pastore trasferito a Sant’Andrea. A me basta sapere il bene
che i due sacerdoti si sono voluti, bene fraterno sebbene nelle reciproche
diversità caratteriali e di visione pastorale, testimoniato anche dalla
naturalezza con la quale ancora oggi don Pino non manca mai di ricordare don
Gino nelle sue preghiere e nelle occasioni di vita parrocchiale».
D:«Alla mia Parrocchia Sant'Andrea: ti ho dato gli anni più pieni della
mia vita, anche quando ti rinfacciavo d' avermi deluso, eppure non avrei saputo
fare a meno di te», altra frase chiave del suo testamento spirituale, che
lascia intendere a momenti non proprio facili per don Gino nel lungo cammino
fatto in questa comunità…
R:«Don Gino ha amato
profondamente la chiesa di Sant’Andrea, il quartiere di Santa Maria e i suoi
parrocchiani. È stato parroco di Sant’Andrea dal 1982 al 2006, fatta salva la
breve parentesi del 97. Di momenti duri, anche durissimi, in 24 anni ve ne sono
stati, così come altrettanti sono stati quelli bellissimi. Durante il parrocato
di don Gino le attività, come ho già accennato, per restituire dignità sociale
al quartiere furono molteplici ed alcune anche di livello eccelso, come i corsi
di perfezionamento musicale “Master Class”, i concerti di musica classica e per
pianoforte, la mostra “La parola si fa colore” con le splendide icone e le
lezioni di educazione alla loro lettura. Furono ristrutturati i locali
superiori della chiesa di Sant’Andrea per renderli funzionali anche alle
attività parrocchiali, fu avviato il recupero della chiesa di Mater Gratiae,
che fu destinata a una comunità di recupero per tossicodipendenti e poi alle
attività utili alla pastorale diocesana; furono restaurate la chiesa del
Purgatorio, riaperta dopo decenni, e la chiesa di San Cataldo; fu riaperta al
culto domenicale, grazie al dialogo sempre intelligente con la famiglia De
Martino, la chiesa di Santa Maria del Carmine. L’attività del parroco nella sua
parrocchia fu sempre viva, attenta anche alle strutture, all’impianto storico e
sociale del tessuto urbano nel quale la sua missione si svolgeva, soprattutto
se si tiene conto che il contesto nel quale era attivo l’operato del sacerdote
era un contesto di vero e proprio dissesto architettonico, e quindi culturale
(non si pensi al quartiere dei pub e della movida odierna; Santa Maria era un
luogo molto diverso, al tempo). Insomma, il prete era (ed è tuttora, anche se
in un contestoculturale mutato) riferimento sociale, prima che religioso, e con
quest’ottica don Gino ha provato a lavorare nei lunghi anni di attività, senza
mai perdere di vista la sua missione in quel contesto, rispondente unicamente
alla necessità di diffondere la Parola evangelica grazie anche alle opere
quotidiane. È inutile dire che di errori ve ne sono stati, ma, come diceva don
Milani, solo chi si sporca le mani può sbagliare; tenere in tasca le mani,
pulite e perfette, non serve alle persone e non serve al Signore. Mio zio aveva
un cruccio, però, al quale non riuscì, in vita, a dare compimento: il restauro
della chiesa di Sant’Andrea, che è partito solo un anno dopo la sua morte
grazie all’impegno di don Angelo Dipasquale e della Diocesi. Quel restauro don
Gino avrebbe voluto seguirlo personalmente, ma non ce l’ha fatta. A fare un
consuntivo, dunque, si può ben affermare che non si è trattato di un ventennio
semplice, ma che anzi si è trattato di un’esperienza di grande fatica, che ha
spesso poggiato sulla buona volontà di singoli benefattori e anime davvero
cristiane, la cui attenzione verso la comunità parrocchiale altrettanto spesso
è servita a pagare le bollette di molti, a far studiare ragazzi altrimenti
destinati al disagio sociale, ad aiutare famiglie a mangiare, a dare spazi di
socialità altrimenti assenti; in un’epoca e in una città, aggiungo io, in cui
non esistevano le tutele sociali di cui godiamo oggi, e in cui la parola
“povertà” significava “fame” e, spesso, rischiava di diventare (e diventava) “illegalità”,
“violenza”, “droga”, “morte”. Questo, è bene dirlo, don Gino continuava a
ripetere fu possibile non per suo merito, ma per merito di quanti non facevano
mancare sostegno, presenza, aiuto alla parrocchia. Si chiama Carità, è una delle
tre Virtù teologali professate dalla dottrina cattolica, ed è uno dei motivi
per i quali la Chiesa continua ad essere collante sociale in molti contesti
disagiati, che sono paradossalmente quelli dove la Fede è più forte e la
presenza di Cristo si accoglie nell’abbraccio tra gli uomini».
D: Cosa è sopravvissuto di don Gino Spadaro nella comunità di San
Andrea oggi?
R:«Certamente
il senso della preghiera come elemento centrale del vivere del cristiano, ma
anche la necessità di un dialogo diretto e senza troppe strutture con il
Signore. Il riconoscersi pieno e senza alcuna reticenza nella Chiesa come
istituzione, che è elemento fondamentale per l’identità religiosa, culturale,
politica del cattolicesimo, mischiato, tuttavia, alla necessaria libertà di
ragionamento che si deve ad ogni uomo e che è proprio della complessità del
concetto di Fede e, paradossalmente, ne costituisce la forza. Di conseguenza,
nella sua comunità è sopravvissuta la capacità di scindere e distinguere i
piani del ragionamento, evitando facili conclusioni e giudizi affrettati, che
non sono propri del buon cristiano. Questo per quello che riguarda l’eredità
culturale che è in ciascuno tra coloro che hanno saputo apprendere
l’insegnamento di un sacerdote certamente non compromissorio. Nella comunità
attuale, molto diversa da quella che lo ha accompagnato sino alla morte, rimane
la memoria forte di una presenza incombente sul quartiere, vissuto sino alla fine
come la propria casa terrena».
D: Quale sarebbe la sua opinione nel vedere la sua comunità
oggi?
R:« Non
credo si debba parlare di un’opinione sulla sua comunità, o quantomeno non mi
sento di doverlo fare io. So cosa chiederebbe alla sua comunità: preghiera e
impegno sociale e culturale nella comunità religiosa e in quella laica, mettendosi
in discussione, mantenendo autonomia di giudizio e fermezza nella Fede».
D:
Aldilà di quello che è stato il suo testamento spirituale, don Gino ha lasciato
alla comunità barlettana tutta un’eredità di “responsabilità civile e
culturale”…
R:«Nelle
domande precedenti credo di averti già tracciato un percorso su questa
“eredità”, di cui tu parli. Mi piace citare, ma solo per un fatto di affetto
personale, una delle esperienze più belle che lo videro promotore e
protagonista, insieme agli amici dell’Archeoclub e al suo caro amico Luigi
Dibenedetto, a partire dal 2000. Parlo, evidentemente, dell’esperienza del Genio della mia terra, la collana di
volumetti editi dalla Rotas tramite la quale don Gino volle promuovere in modo
semplice e chiaro il patrimonio monumentale religioso della città. Si è
trattato di una stagione viva, durante la quale furono schedati e resi noti
molti monumenti sino ad allora sconosciuti. Penso, per esempio, ai pezzi di
argenteria conservati nelle chiese storiche, o ai paramenti liturgici, alcuni
dei quali costituiscono un patrimonio ancora oggi usato dai sacerdoti durante
le funzioni più solenni. La sua idea era quella di aprire ai barlettani le
porte dell’arte e restituire alla chiesa diocesana il compito, a lungo
detenuto, di promotore di cultura e di conoscenza. Una promozione a cui
potessero avere accesso tutti, a prescindere dalla struttura intellettuale o
dalla preparazione culturale, perché quei monumenti non solo sono arte da
conservare, ma segni visibili del cristianesimo sulla terra e, dunque, ancora
oggi pienamente riconoscibili come elementi di un paesaggio religioso
millenario».
D: Cosa potrebbe
fare la comunità barlettana in futuro per ricordare la figura di questo grande
sacerdote?
R:«Lo
ha scritto nel suo testamento: «Pensate tutti a pregare per me, che è la cosa
più seria e più necessaria, la sola che vi farete obbligo di darmi senza
misura». Questo non significa che non sia necessario ricordarlo, magari come
stiamo facendo noi in questo momento. Tuttavia, è bene chiarire che la sola
memoria utile ad un sacerdote è quella che lo ancora alla sua dimensione
sacerdotale, e quindi a Cristo. E l’ancoraggio al Signore nella vita dopo la
morte è più solido se sostenuto dalla preghiera per la salvezza dell’anima.Per
questo la preghiera è il solo obbligo che lui ha imposto alla sua comunità, e
quindi anche a quanti, in città, vorranno ricordarlo. Ma ci tengo a chiarire
che è preghiera anche una memoria intelligente. Non è necessario un racconto
agiografico (come purtroppo è divenuto abitudine fare dopo la morte di molte
personalità che hanno avuto a che fare anche con una minima dimensione pubblica).
Il racconto agiografico è utile solo ai poveri di spirito e non produce alcuna
meditazione positiva. Però è bene chiarire che è e può essere preghiera, se
serve a convertire i cuori, anche la semplice testimonianza. Per questo ho
accettato di rispondere alle tue domande, pur con grande tribolazione; ma so
che, se utile alla causa della conversione del cuore dell’uomo, la costruzione
della memoria è parte del percorso del cristiano. Questa cosa l’ho imparata,
insieme a molti altri, proprio da don Gino, e di questo spero che la comunità
barlettana possa fare tesoro per il futuro».