Barletta, Scuola calcio Spirito Santo, un quartiere, una scuola calcio e una generazione che più di trent’anni fa iniziava a correre dietro ad un pallone
Nicola Ricchitelli - Lunedì,
Mercoledì Venerdì. Vi è stato un tempo in cui per noi ex bambini nati e
cresciuti in questo quartiere, questi, erano i soli tre giorni che meritavano
considerazione durante tutto l’arco della settimana, aldilà della domenica –
con la sua noiosa messa con tanto di catechismo annesso - e il “90 minuto”.
C’era
la terra battuta, quella che quando finivi di giocare ti lasciava volere o
volare le ginocchia sbucciate e gli innumerevoli graffi lungo le gambe, c’erano
le reti delle porte bucate legate con i lacci ai ganci delle stesse, e c’era la
pioggia che ti metteva di malumore sin dal mattino tra i banchi di scuola
poiché voleva dire distese infinite di pozzanghere e quindi niente scuola
calcio, o per lo meno ti toccavano le noiose lezioni sulle regole del calcio,
lì dentro lo spogliatoio: «quanto è larga una porta una porta di calcio? 7
metri e 32 mister!», ed ancora:« quanto è alta una porta di calcio? 2 metri e
44 mister», «se un difensore fa un retropassaggio, il portiere la può prendere
con le mani? No mister».
Poi
c’era Marco che non appena arrivavi ti gridava: «oggi si fa tutta partita», il
che voleva dire niente tutti quei noiosi esercizi – stop di interno, tiro di
collo piede, stop con l’interno piede – e quindi niente corsa e robe di questo
tipo, ma soltanto tante partite, goal ed esultanze.
C’era
Cosimo, che quando palleggiavi puntualmente veniva a farti cadere il pallone, e
c’era Davide che di palleggi non riusciva a farne neanche uno.
Poi
c’era Marco che tra un palleggio e l’altro non perdeva occasione per sistemarsi
i capelli, invece Christian a fare i palleggi se la cavava, Gaetano ce la
metteva tutta ma purtroppo il pallone gli correva sempre dietro cosi come una
mamma e il bimbo monello, poi c’era Francesco che si “mangiava i goal davanti
alla porta”, e Ruggiero quello che non giocava mai ma che un giorno fece un
goal davvero importante che valeva un campionato.
C’era
chi durante la partita voleva sempre fare tutto da solo, chi non passava mai la
palla, c’era questa e quell’altra squadra da battere, e c’erano due fratelli
gemelli di nome Michele e Giuseppe che da fuori ci prendevano in giro
sostenendo che eravamo delle mezze schiappe.
C’era
da fare in fretta i compiti per poi ritornare la sera sempre su quel campo
durante la lezione riservata ai ragazzi del rientro pomeridiano per fare numero
pari durante la partitella, e perché no, rifare da capo tutto l’allenamento.
C’era
da diventare come Roberto Baggio -
nonostante quel calcio di rigore sbagliato a Passadena – e c’era da diventare
come Gianfranco Zola – nonostante quel rigore sbagliato contro la Germania che
ci buttò fuori da Euro 96 – c’era George Weah – quello che con la palla al
piede corse per San Siro tutto contro il Verona - e Gianluca Vialli, Zinedine
Zidane e Alessandro Del Piero, c’erano le partite alle figurine negli
spogliatoi e i mister che le sequestravano, finché iniziammo a divenire troppo
grandi per voler essere come Totti e Vieri.
Poi
arrivò mister Claudio colui che parlava strano,« e metti un po’ de carne qua, e
metti un po’ de carne là» ripeteva a chi era tutto carne e ossa, si diceva essere
un ex calciatore, ma per noi sembrava venire da un altro pianeta solo perché
parlava sempre in italiano e no il dialetto barlettano, che al contrario nostro
lo masticavano meglio della poesia di natale.
Divenimmo
sin da subito coloro che da piccoli sognavano di fare i calciatori, non ci
restò che esibirci dinanzi alle ragazze della comitiva e nei tornei fatti per
illusi, nel frattempo lui Marco lo ricordammo giusto in un paio di occasioni e
poi niente più, in qualche partita a lui dedicata, mentre qualche tempo dopo,
mister Savino lo raggiunse perché forse stava facendo il discolo anche in
paradiso.
C’era
un quartiere che si diceva essere difficile, ed ecco allora che intere
generazioni nella Scuola Calcio Spirito Santo vi hanno trovato il giusto rifugio
dalle tentazioni e dai pericoli della strada, per anni guidata da colui che per
molti ha rappresentato una vera e propria figura paterna, Savino Parente. Poi
arrivarono gli anni bui e con essi le erbacce e lo stato di abbandono in cui
questo pezzo di storia vessò per alcuni anni, poi mister Claudio – che negli
anni è divenuto uno di noi – con forza e tenacia lo trasformò in ciò che appare
oggi, con tanto di erbetta sintetica, e con quei figli di quella generazione
raccontata sopra che corre dietro ad un pallone.
Questo
quartiere trent’anni dopo è rimasto quello che è, quel che era, difficile, e
forse sempre lo sarà.
Un
tempo vi erano famiglie che non riuscivano ad arrivare alla fine del mese, oggi
vi sono famiglie che lottano per arrivare alla fine della giornata. C’è un
caldo che piegherebbe la resistenza di molti, ma qui c’è sempre una palla da
mettere in rete, un contrasto da vincere con l’avversario e con la vita, qui
c’è una vita che ti farà sempre fallo da dietro, sempre pronta a lasciare i
segni dei tacchetti sugli stinchi ma comunque imparerai ad alzarti, nonostante
i lividi, le ossa e le caviglie rotte.
Alzo
lo sguardo proprio verso il terrazzo di fronte, a volte sembra di vederlo
seduto mentre osserva quei bimbi giocare, dai muoviti a scendere Marco, oggi si
fa “tutta partita”.